giovedì 28 luglio 2011

Ora che il gallo ha cantato

Da Il Manifesto 28 luglio 2010
di Maurizio Matteuzzi

L'Alma Mater Studiorum ha un nuovo statuto. Dalla constitutio habita ne ha avuti molti. Questo è il peggiore. Scritto e voluto dai pochi, contro il sentire dei molti. Nemmeno al livello dei massimi vertici c'è stato accordo. Da oggi la comunità è meno universitas e meno societas; forse più azienda, ci auguriamo più efficiente, sicuramente meno democratica.

La prima cosa su cui giova riflettere è che, di tutti i bisogni che poteva sentire il nostro Ateneo, senza dubbio quello di dotarsi di un nuovo Statuto non aveva grande priorità; anzi, possiamo confessarcelo, non compariva proprio in elenco. D'altra parte ci hanno spiegato che Tremonti è un uomo d'onore; e anche Gelmini; e Brunetta; e Bruto, e Cassio, e Casca, e gli altri, tutti, tutti, uomini d'onore.

I trattati sulla governance, nella dinamica di gruppo, distinguono una leadership autoritaria, una leadership democratica, una leadership non direttiva. Una leadership autoritaria presenta di norma una maggiore produttività, entro una visione tayloristica; ma a patto che di produzione parcellizzata e ripetitiva si tratti; a sfavore, aumenta fortemente l'aggressività e il rispetto all'interno del gruppo. La leadership democratica, viceversa, ripaga nel lavoro creativo, a grande variabilità, e crea forte coesione entro il gruppo. Da queste poche battute si capisce che università si è voluta. E dal governo del bunga-bunga poco di diverso ci si poteva attendere. Qualcosa di più ci si aspettava dagli zelanti attuatori che ne hanno declinato la curvatura locale.

Quanto questo statuto sia poco condiviso, e sia persino inviso ai più, è già stato ampiamente provato, e sta agli atti. Ma la cosa più grave è quanto, in termini sia di risorse che di tempo, quanto ci costerà rimettere le cose a posto, e resuscitare la ricerca pubblica e la sua dignità. Perché qui purtroppo non stiamo parlando del funerale di Cesare, che la storia ha archiviato, ma di quello della democrazia nell'Università di Bologna.

La comunità scientifica è stata tradita; più volte e da più attori. E' stata tradita prima di tutto dalla CRUI. Ai tempi del tentativo, ben meno invasivo, del ministro Moratti, i Rettori si dimisero; la pretesa riforma non passò mai completamente, per la fortuna di tutti, dall'ideale al reale; i danni indubbiamente ci furono, ma circoscritti: qualche diritto acquisto negato, ma, si sa, è prassi tutta italiana; l'introduzione di qualche elemento di confusione ulteriore; qualche promessa campata in aria, tipo i concorsi sistematici e in tempi certi; ma, si sa, è uno stilema del nostro governo.

Riguardo alla legge Gelmini, mentre la comunità si aspettava, legittimamente e diciamo pure logicamente, una resistenza ancora più decisa, l'atteggiamento è viceversa drasticamente mutato: la CRUI, anche nelle sue componenti dichiaratamente “di sinistra”, si è mostrata prona e servile, fino al collaborazionismo dichiarato. Per quale infausta ragione i nostri Magnifici abbiano compiuto questa capriola logico/etica, resta misterioso e privo di una spiegazione razionale, in specie a voler comparare le due interlocutrici: la comparazione è così impietosa che ce ne asteniamo, per non dovere intraprendere la via dell'encomio della Moratti. La CRUI ha appoggiato il ministro Gelmini con partecipazione e impegno: il rettore dell’Università del Sannio, prof. Bencardino il 23 febbraio 2011 lo ha espresso meglio di tante parole affermando in presenza del ministro che “abbiamo collaborato per portare avanti la riforma, anche cercando di contenere le pressioni che venivano dal basso, dagli studenti, dai colleghi ricercatori. Ci siamo riusciti, la riforma è andata in porto”.

Il secondo tradimento è stato perpetrato dai politici. Si sa, la politica è l'arte del compromesso; ma altro è il compromesso, altra la menzogna eretta a sistema. Qui non c'è tanto da scandalizzarsi di quegli analfabeti prezzolati, dipendenti del partito azienda, che hanno compitato gli slogan predisposti, senza sapere bene di cosa parlassero: bisogna capirli: tengono famiglia; e, più ancora, tengono padrone. Altro è il caso di chi, come Francesco Rutelli, annuncia a chiare lettere che voterà la legge se e soltanto se saranno previste le adeguate risorse; a fine dibattito è a tutti chiaro che tali risorse, prima dimezzate, vengono alla fine espunte. E tuttavia il Nostro, fulminato dalle due paginette che la Ministro legge stentatamente in Senato, con qualche incertezza e qualche accento bizzarro, avendo colto l'aggettivo “bipartisan”, muta l'accento ed il pensier. Gelmini insomma mostrò ciò che potea la lingua nostra. Assai simile il caso dei così detti “finiani”, che prendono il problema sul serio, al punto da salire sui tetti della protesta, nelle persone di Granata e Della Vedova, e assicurare che il loro voto è condizionato alla prova del finanziamento. Ma quando appare chiaro che il finanziamento non c'è proprio, neanche nelle briciole annunciate, sono presi da un improvviso vuoto di memoria, e votano la legge: per coerenza.

Dell'atteggiamento del PD è difficile dar conto; da un lato si dovrebbe, come si fa per i grandi autori - c'è un primo Wittgenstein e un secondo Wittgenstein, si sa -, parlare di un primo PD e di un secondo PD; dall'altro, il caso è qui ancora più complesso, si dovrebbe parlare di ogni singolo membro, perché a riunire sotto una stessa denominazione idee le più diverse si ottiene forse un insieme, in senso cantoriano, ma difficilmente un partito.

Il terzo tradimento è il più grave di tutti, è quello che fa sanguinare il cuore, quello, direbbe Kierkegaard, che è una “scheggia nelle carni”. Il terzo tradimento è autoctono, ermafrodito, onanista, autoreferenziale, autarchico, autonomo, autosufficiente: è l'autotradimento. Una congerie di persone che si arrogano l'orgoglio di lavoratori della conoscenza, che si porgono come i depositari del sapere e della cultura, che si sentono e si dicono paladini e custodi della ricerca scientifica, del vero sapere, e dunque dei valori i più nobili dell'umanità, questa congerie e non altra tu la vedi correre dietro una bandiera, come gli ignavi del terzo canto: non sono contenti, ma non si oppongono; non condividono, ma si industriano a scrivere statuti e regolamenti; parlano di merito, e hanno le carriere e persino l'anzianità bloccata; e corrono, corrono, nudi, punti dalle vespe, dietro un'insegna vuota. Vivono sanza infamia e sanza lodo; ma vivono?

Che dire? Meglio affidarsi al Poeta: la loro cieca vita è tanto bassa che dovrebbero invidiar ogn'altra sorte. Ma purtroppo non ne possiamo mutuare le conclusioni: non possiamo dire ai nostri allievi, ai nostri collaboratori più giovani, ai nostri studenti: “non ti curar di lor, ma guarda e passa”; per andare dove, colleghi? All'inferno ci siamo già.

La CRUI rappresenta solo se stessa?


La CRUI rappresenta solo se stessa?
Comunicato RIUNIBA
Ricercatori e ricercatrici delle Università di Bari


Al presidente della CRUI
Prof. Mancini Marco

Assoluto sconcerto! Questo è il sentimento comune dei ricercatori dopo la lettura dell’ultimo documento prodotto dalla CRUI sulla didattica dei ricercatori. Dopo aver attivamente collaborato con il Governo rendendosi corresponsabile dell’approvazione della legge 240 (si vedano al proposito le lungimiranti dichiarazioni dell’allora presidente CRUI Decleva), l’associazione dei rettori italiani ritorna sulla scena del delitto per completare l’opera di distruzione dell’università pubblica italiana.

Non è bastato, infatti, coadiuvare il Governo nel progressivo definanziamento dell’università, nella scrittura della più verticistica delle riforme possibili, nella regionalizzazione del sistema universitario italiano, nella marginalizzazione delle università meridionali con conseguente progressiva trasformazione degli atenei del sud in teaching universities cioè in università con il mero compito di rilasciare lauree di primo livello ed emarginate finanziariamente dagli ambiti della ricerca di alto livello, competitiva ed internazionale.

Come se tutto questo non fosse stato sufficiente, i rettori chiedono al Governo di modificare la legge nella parte in cui viene ribadito l’obbligo della retribuzione della didattica aggiuntiva affidata ai ricercatori (art. 6 comma 4 della legge 240/2010). La proposta della CRUI su questo punto è assolutamente inqualificabile ed inaccettabile perché cerca di scaricare sui ricercatori, l’anello debole del sistema, i guasti, le disfunzioni e i debiti degli atenei italiani che, invece, hanno ben altri responsabili.

L’università è sottofinanziata, gli atenei hanno un disperato bisogno dei ricercatori per il mantenimento dell’offerta formativa, il cui grado di copertura in alcuni casi arriva fino al 50%, e i rettori che fanno? Chiedono forse al governo di procedere immediatamente all’abilitazione nazionale con chiamata diretta per coprire le carenze di organico presenti in ogni ateneo? Ovvero chiedono al governo dei finanziamenti ad hoc per pagare i ricercatori che si assumono l’onere della didattica? Ipotizzano per caso una valutazione dell’attività didattica svolta nelle idoneità o nei futuri scatti non più automatici ma legati al merito? Nulla di tutto questo. Chiedono invece al Governo la possibilità di far insegnare i ricercatori senza nessuna retribuzione, gratis et amore dei.

Sinceramente le dimissioni di Decleva avevano suscitato in molti di noi la speranza di un cambiamento di rotta rispetto ad una linea di totale appiattimento sulle posizioni del Governo. Ci eravamo illusi e la proposta consegnata qualche giorno fa al ministro dalla CRUI sta lì a testimoniare una continuità di linea politica rispetto al passato che ai più appare incomprensibile ed irrazionale allo stesso tempo.

Se queste sono le idee di chi governa l’università sulla didattica espletata dai ricercatori, ricordando che questa viene loro affidata previo consenso del ricercatore stesso, la risposta dei ricercatori non potrà che essere un ritorno alla indisponibilità totale, assoluta ed irremovibile.

Per concludere, se la linea della CRUI dovesse essere quella che si evince dal documento consegnato al ministro, allora diventa urgente chiedersi se ha ancora un senso far parte della CRUI, che, ricordiamo, non è un organo istituzionale, ma un’associazione di diritto privato. Senza un radicale cambiamento di rotta ci vedremo costretti a promuovere la convocazione di un referendum per chiedere alla comunità universitaria di esprimersi sull’adesione del proprio ateneo ad un’associazione che non rappresenta più l’Università pubblica, ma solo i rettori e le loro, per quanto legittime, ambizioni personali.

Bari lì 27/07/11

RIUNIBA

domenica 3 luglio 2011

Documento unitario del 30 giugno 2011


ADI, ANDU, APU, CISL-Università, COSAU (Adu, Cipur, Cisal, Cnru, Cnu),

CoNPAss, CPU, FLC-CGIL, LINK, RETE29Aprile, SNALS-Università, SUN, UDU, UGL-Università, UILPA-UR, USB-Pubblico impiego

Roma, 30 giugno 2011

Le organizzazioni sindacali e le associazioni universitarie, rappresentanti dei docenti, dei tecnico-amministrativi, dei precari e degli studenti, esprimono forte preoccupazione per la situazione dell’Università statale in Italia e per le sue prospettive.
Dopo la formulazione del documento unitario del 14 febbraio 2011 (“Per la democrazia negli statuti degli atenei italiani”) si deve constatare che le previsioni legate alle molte criticità della legge si stanno purtroppo realizzando.
Se da un lato il governo è in ritardo nell’emanazione dei previsti decreti attuativi – prolungando la paralisi di diversi aspetti delle attività universitarie – la redazione degli statuti nella maggior parte delle sedi non sta tenendo conto dei principi di partecipazione democratica evidenziati nel documento unitario.
In molte sedi le Commissioni (quasi mai individuate attraverso un’elezione dei componenti) non sembrano riuscire ad avere reale autonomia di manovra, in un processo che rimane guidato dagli establishment preesistenti. Nel complesso si delinea una Università fortemente verticistica e modellata – anche in seguito all’impronta della legge che è del tutto evidente non migliora la situazione precedente e comprime ulteriormente gli spazi di libertà ed autonomia garantiti dalla Costituzione.

In questo quadro le organizzazioni e le associazioni universitarie ribadiscono alcuni principi irrinunciabili per l’Università statale, la quale deve operare per il bene comune, come motore fondamentale dello sviluppo sociale e culturale del Paese e deve restare, attraverso la formazione delle cittadine e dei cittadini, presidio di partecipazione consapevole alla vita politico-sociale della comunità.

GESTIONE DEMOCRATICA E PARTECIPATA DEGLI ATENEI
Deve essere assicurata una reale e concreta partecipazione al governo degli Atenei di tutte le componenti della comunità universitaria.
Questo principio si realizza mediante componenti elettive nei Consigli di Amministrazione e nei Senati Accademici delle Università. Si deve evitare, allo stesso tempo, di snaturare la stessa logica partecipativa e collaborativa dei dipartimenti, come sta avvenendo affidando ad organismi ristretti ed elitari le principali scelte ad essi relative. Questo principio di gestione democratica e partecipata si realizza, altresì, con la partecipazione di tutte le componenti all’elezione del Rettore, figura che, nel sistema previsto dalla legge 240/10 vede un enorme incremento dei propri poteri, e che dunque necessita di una larga legittimazione da parte della comunità dell’Ateneo. Si ritiene altresì fondamentale prevedere forme di consultazione collettiva nelle scelte più importanti per la comunità universitaria e, in particolare, nella definizione degli Statuti.

AUTONOMIA E INDIPENDENZA DELLA RICERCA E DELLA DIDATICA
La libertà della ricerca e della didattica – costituzionalmente tutelata – è il principio cardine sul quale poggia l’intera istituzione universitaria. Questa libertà deve essere effettivamente garantita mediante una ricerca e una didattica autonome e indipendenti. Pensare di asservire l’Università alle necessità attuali e contingenti del mercato, senza tenere conto del bilancio sociale e arrivando a comprimere ricerca e didattica, è non solo concettualmente sbagliato ma anche controproducente. E’ attraverso ricerca e didattica libere che si dipana la possibilità di innovazione e di crescita culturale del Paese, condizioni imprescindibili per il progresso sociale e lo sviluppo economico.
Per questi motivi occorre sviluppare armonicamente la ricerca di base e applicata. E’ inoltre necessario ripensare una didattica che sia di qualità e accessibile a tutti, senza sbarramenti all’ingresso, valorizzando la qualità della formazione che non può essere ridotta all’adempimento di meri obblighi formali/burocratici.

PRECARIETA’
E’ necessario affrontare da subito l’esplosivo fenomeno della crescente precarietà nel settore dell’alta formazione. La situazione è aggravata dalla progressiva riduzione dei fondi e dall’espulsione degli attuali precari con il rischio della definitiva distruzione di un indispensabile patrimonio di competenza e di conoscenza, che altri e più lungimiranti Paesi si sono dimostrati pronti a utilizzare. Il sistema universitario ha bisogno di nuove intelligenze capaci di rinnovarlo e di garantire quella dimensione internazionale che tutti riconoscono come fondamentale.
E’ necessario non smantellare il sistema universitario: piuttosto occorre investire in esso per mantenere l’Italia fra i paesi più sviluppati, tenendo fede agli impegni presi in ambito europeo.
Per questo occorrono impegni concreti, tra cui, in particolare, la possibilità di reinvestire nel sistema universitario tutte le risorse che si renderanno disponibili dai pensionamenti, destinando oltre la metà di esse all’ingresso in ruolo di giovani, attualmente precari, che da anni già contribuiscono alle attività tecnico-amministrative, di formazione e di ricerca, spesso senza alcuna garanzia di tutela della titolarità del lavoro svolto e della produzione scientifica. Alle varie sedi universitarie, cui la legge affida la procedura di reclutamento attraverso regolamenti locali, spetta il compito di prevedere modalità che privilegino la trasparenza e che mettano al centro l’effettiva competenza dei candidati, nella prospettiva di un disegno culturale di medio-lungo termine che ogni Ateneo dovrebbe esplicitare per poter effettuare scelte coerenti.

DIRITTO ALLO STUDIO
Il diritto allo studio, tutelato dalla Costituzione, non può ridursi a mera formulazione di principio ma deve assumere forme concrete. In questo senso risulta paradossale il taglio del 95% al fondo nazionale che di fatto cancella il diritto allo studio e il sistema di servizi e borse di studio che ancora ad oggi supporta migliaia di studenti capaci e meritevoli, ma privi di mezzi. Dalla previsioni legislative non emerge alcun ripensamento che miri ad ampliare il sistema diritto allo studio, come pure accaduto in altri Paesi, ma si mira invece a trasformare in strumenti di indebitamento quello che dovrebbe essere una componente essenziale del welfare per gli studenti in un strumenti di indebitamento. Il principio dell’indebitamento si contrappone profondamente alla concezione dell’accesso al sapere non come costo, ma come investimento nella crescita e nello sviluppo del nostro paese, nonché come fattore principale della mobilità sociale. Inoltre il fondo per il merito e gli altri interventi che mirano a valorizzare esclusivamente i risultati accademici dello studente, prescindendo dalle sue condizioni economiche, non si possono configurare come interventi tesi a garantire il diritto allo studio, ma è necessario vincolare la ripartizione delle scarse risorse disponibili per garantire la parità d’accesso a tutti gli studenti. Su questo occorre che le istituzioni nazionali, assieme a quelle locali, si attivino per sostenere coloro che desiderano giungere ad una laurea per migliorare la propria formazione.
Le Università non devono in alcun modo sfruttare l’autonomia per una corsa a rialzo sulla tassazione studentesca, ma, soprattutto in un momento di forte definanziamento del sistema universitario, è necessario garantire in primis gli studenti, non facendo gravare su di loro il peso dei tagli. In questo contesto risulta prioritario ripensare e ampliare i diritti essenziali del welfare studentesco, garantendo da un lato la copertura totale delle borse di studio e dei servizi per tutti gli studenti idonei, dall’altro sviluppando nuove politiche sulle residenze studentesche e sostegni all’affitto, mense universitarie, trasporti, accesso alla cultura e assistenza sanitaria in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.

FINANZIAMENTO DEL SISTEMA UNIVERSITARIO
L’Università statale italiana non può più continuare ad offrire il proprio fondamentale contributo alla comunità in una prospettiva di continuo definanziamento. Ora che la riforma è stata varata, il livello di finanziamento – attualizzato – deve essere almeno riportato a quel che era prima dei recenti tagli Il finanziamento deve tener conto delle legittime aspettative di carriera e dai contratti; gli atenei debbono essere messi in condizione di poter redigere dei piani strategici pluriennali di ricerca e di formazione potendo contare su risorse certe, nell’ambito di un processo di valutazione continua e rigorosa del loro operato scientifico. E’ necessario che le istituzioni centrali prevedano un investimento di medio-lungo periodo nel sistema universitario. Investimento che, particolarmente in condizioni di crisi economica – come hanno dimostrato anche le accorte politiche di altri paesi europei come la Germania –, è fondamentale se si vuole riavviare lo sviluppo.
L’attuale situazione del finanziamento universitario è assolutamente insostenibile: lo è il fatto che, da alcuni anni a questa parte, la sua entità sia sistematicamente prevista al di sotto di quella necessaria a retribuire i lavoratori, salvo prevedere variazioni dell’ultimo momento – in seguito a contrattazioni non sempre trasparenti con gli establishment attuali – appena sufficienti per mantenere in vita un anno di più il sistema universitario statale. In queste condizioni, in cui nulla è possibile – non la pianificazione, certo non la ricerca scientifica particolarmente innovativa e neppure la gestione delle semplici attività routinarie – il sistema non può che implodere, generando continui conflitti alla ricerca di una sterile sopravvivenza da ottenere, alla bisogna, anche attraverso la compressione dei diritti di chi nel sistema lavora e dovrebbe operare essendo valorizzato e coinvolto. Non marginalizzato e demotivato. E’ in questa prospettiva che – segnaliamo – non è più possibile immaginare di procedere a vista, magari puntando tutto sul volontariato dei docenti, siano essi professori ordinari, associati o ricercatori, o dei precari della ricerca e della didattica o ancora del personale tecnico amministrativo. Oppure sulla tolleranza degli studenti, contando sul fatto che possano per un anno ancora considerare normale e fisiologica una ormai cronica penuria di servizi causata dai continui tagli. Questa continua riduzione del finanziamento all’Università statale non fa che mettere, in modo assolutamente miope, diverse generazioni in condizione di marcata disparità rispetto ai coetanei di altri Paesi europei in competizione con il nostro. Si tratta di una disparità e di una miopia che, se non si modifica la rotta, l’intero Paese pagherà a caro prezzo, nel prossimo futuro.

PUBBLICO E PRIVATO
Non si può immaginare di affidare il sistema dell’alta formazione italiana al settore privato, che ha già dimostrato di non garantire livelli adeguati di qualità. Non è accettabile la progressiva contrazione dei finanziamenti all’università statale, né la delega al settore privato della gestione delle risorse statali, come lasciano intravedere la previsione legislativa del nuovo “modello” di CdA e il crescente interesse alla costituzione di fondazioni. E, in questo quadro, neppure è condivisibile – come abbiamo avuto occasione di dire in una recente audizione sul tema in Senato – l’ipotesi di abolizione del valore legale del diploma di laurea, che delegherebbe al “mercato” funzioni di natura e di interesse pubblici.
Soltanto lo Stato può essere garante di un sistema di ricerca e di alta formazione che sia effettivamente al servizio della crescita culturale del Paese. In questa prospettiva, mentre vanno certamente incentivate tutte le forme di leale e proficua collaborazione tra pubblico e privato, ci appare fondamentale garantire un sistema che funzioni avendo come guida l’interesse collettivo (gestione democratica e partecipata) e non oligarchico-baronale; un sistema nel quale la libertà di ricerca e di didattica vengano garantite e tutelate, anche trasformando finalmente la precarietà in stabile e proficuo impegno per l’istituzione; solo lo Stato può investire sulla propria cittadinanza rendendo effettivo il diritto allo studio, ed è allo Stato, quindi, che spetta – nell’interesse collettivo – il compito di definire questo investimento non come aspetto secondario e come un “problema di costi”, ma come priorità.

Per discutere su tutte queste questioni saranno indette unitariamente negli Atenei Assemblee di tutte le componenti.


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